CATANIA
Il terremoto più devastante della storia sismica d’Italia: è quello che domenica 11 gennaio 1693 s’abbatté sulla Sicilia orientale, radendo al suolo le città di Catania e i paesi del suo hinterland, Siracusa e i centri del Val di Noto, sino a Ragusa. I morti furono quasi sessantamila: in pratica, tra le macerie perì circa la metà delle popolazioni che allora, sotto il dominio spagnolo, vivevano in questa porzione dell’Isola. Nella sola Catania, come scrisse nella sua relazione lo stesso viceré Francisco Pachedo duca d’Uzeda, su una popolazione residente di 18.914 persone si contarono 11.964 vittime (il 63%).
Oggi, a 324 anni da quel tragico evento, Mario Mattia, primo tecnologo dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) di Catania e il professor Carmelo Monaco, ordinario di Geologia strutturale all’Università etnea, ricostruiscono quanto accaduto in quei drammatici giorni, ripercorrendo poi gli anni della ricostruzione che diede un volto completamente nuovo alle città e ai borghi della Sicilia orientale.
«All’unnici ‘i jnnaru, a vintin’ura; Fu ppi tuttu lu munnu ‘na ruina; Piccili e ‘ranni sutta li timpuna; Riciennu: “Aiutu!” e nuddu ci ni rava; Su nn’era ppi Maria, nostra Signura; Tutti fuorrumu muorti all’ura r’ora; All’ura r’ora, cianciriemmu forti; Sì Maria nun facia li nostri parti; C’è bisuognu ri starici a li curti; Ca cala Cristu ccu scritturi e carti».
(«L’undici di gennaio, alla ventunesima ora; Fu per tutto il mondo una rovina; Piccoli e grandi sotto le macerie; Dicendo: “Aiuto!” e nessuno gliene dava; Se non era per Maria, nostra Signora; Tutti saremmo morti adesso; Adesso, piangeremmo forte; Se Maria non avesse preso la nostra parte; Occorre stare alla sua corte; Ché scende Cristo con scrittori e carte»).
«Catania, 1693. Domenica 11 gennaio. La città sta vivendo l’incubo della fortissima scossa di terremoto che l’ha colpita solo due giorni prima. Il 9 gennaio, infatti, intorno alle 21:00 (a quei tempi vigeva la cosiddetta ora “italiana” ed erano, secondo quest’uso, le 4:30) un violento sisma aveva causato danni a molti edifici della città e ci si interrogava ancora sui guasti subiti dall’imponente monastero di San Nicolò l’Arena, dal Convento dei Padri Minori di S. Francesco e dal Convento Vecchio dei Padri Cappuccini. Alcuni commercianti, poi, riportavano notizie inquietanti di ben più gravi danni ad Augusta e a Noto, con centinaia di morti e distruzione ovunque».
«Alle 9:30 del mattino, i catanesi avvertono un altro terremoto, più debole di quello di due giorni prima, ma in grado di far inclinare pericolosamente la torre campanaria della Cattedrale di Sant’Agata che misurava 90 metri di altezza».
«Facile immaginare che l’allarme e lo spavento fossero diffusi, e che molti si recassero nelle chiese della città per chiedere perdono dei peccati e misericordia per le loro vite».
«Ma quella sin lì vissuta, purtroppo, sarebbe stata solo una pallida anteprima di una ben maggiore catastrofe che si sarebbe abbattuta sulla città alle 13:30 di quello stesso giorno».
«Giovanni Evangelista De Blasi, uno storico del ‘700, scrive che Catania “in pochi momenti diventò un mucchio di pietre” e che “grandi furono, come che minori, i disastri che soffrivano le altre città delle due mentovate valli (Noto e Demone)”. Una sintesi efficace che racconta del maggiore terremoto che, in epoca storica, ha colpito il territorio italiano».
Il “grande” terremoto del Vallo di Noto
«Le dimensioni dell’evento che colpì tutto il cosiddetto Val di Noto (una delle tre circoscrizioni che, assieme al Val Demone e al Val di Mazzara, costituivano le tra macro aree in cui fu divisa la Sicilia dall’epoca dei Normanni sino al 1812) furono talmente devastanti che le testimonianze storiche disponibili sono moltissime e, al di là di documenti più o meno romanzati e di altri per nulla attendibili, è oggi possibile una dettagliata ricostruzione sia dello scenario di danno, che dell’intera (triste) storia dei giorni immediatamente seguenti il terremoto, come anche della prodigiosa ricostruzione post-evento.»
«Il terremoto in sé, alla luce dei numeri che emergono dalla analisi dei documenti, può essere catalogato come catastrofico: 14.000 chilometri quadrati di territorio siciliano devastati, sessantamila morti, le città di Catania, Acireale, Trecastagni, Tremestieri Etneo, Sortino, Palazzolo Acreide, Scicli, Modica, Noto, Avola, Melilli, Lentini, Carlentini e Occhiolà (l’odierna Grammichele) interamente distrutte. Siracusa, Ragusa e Vittoria videro almeno i due terzi degli edifici rasi al suolo. Lo stesso a Spaccaforno (oggi Ispica) e Caltagirone. Danni gravi si ebbero a Patti, Naso e Messina e danni di rilievo furono riportati da molti edifici di Palermo, Agrigento, Reggio Calabria e nell’Isola di Malta. Si deve arrivare fino in Calabria meridionale per osservare danni lievi, e notizie di risentimento arrivarono persino dalla costa tunisina».
«La scossa principale fu sentita come un enorme boato nella maggior parte delle città situate lungo la costa, ed ebbe effetti notevoli anche sulla morfologia del territorio. Grandi frane si verificarono in varie località come Noto Antica, Sortino, Ferla, Cassaro e Spaccaforno (oggi Ispica). Nella zona situata tra Ferla e Cassaro, un’enorme frana sbarrò un corso d’acqua, creando un lago con una circonferenza di circa 4,5 km e una larghezza di 450 metri. Vicino a Sortino e Noto Antica grandi smottamenti causarono lo spostamento di interi campi coltivati che, essendo situati lungo le ripide valli dei principali corsi d’acqua, scivolarono giù per parecchi metri».
«La parte più orientale dell’area maggiormente danneggiata (detta, in termine tecnico, mesosismica), tra Catania e Noto Antica, fu caratterizzata dalla formazione di numerose fratture lineari nel terreno. Le fratture più impressionanti, erano lunghe circa 500 metri e larghe oltre 2 metri, si formarono nella Piana di Catania. Altre fratture minori a Siracusa, Sortino, Melilli e Lentini. Fontane di sabbia alte fino a 6-7 metri formarono vulcanetti sedimentari soprattutto nelle piane di Lentini e Catania e lungo le valli dei fiumi più grandi».
«La scossa principale generò, inoltre, un grande tsunami che colpì tutta la costa della Sicilia orientale, tra Messina e Siracusa, e l’isola di Malta. Nel porto di Catania il mare si ritirò di diversi metri lasciando le barche sul fondo asciutto e l’onda di ritorno, come “un torrente furioso e rapido”, gettò le barche al di là delle mura, in città. Ad Augusta e Siracusa il mare si ritirò di 60-100 metri e poi ritornò con un’onda che raggiunse altezze di circa 12 metri. Le galee dei Cavalieri di Malta, ancorate nel porto di Augusta, si arenarono sul fondo del mare a causa delle onde di tsunami».
«Il maremoto fu caratterizzato da almeno tre ondate distinte che penetrarono sulla terraferma per circa 100 metri a Siracusa, 75 metri ad Augusta, dove lambirono le mura del convento di San Domenico, circa 250 metri a Catania dove il mare raggiunse Piazza San Filippo (attuale Piazza Mazzini), e addirittura un chilometro e mezzo a Mascali».
«Le scosse di assestamento continuarono fino al 1696 nei villaggi e nelle città situate vicino alla costa tra Catania e Siracusa. Le scosse più forti furono registrate il primo aprile e il 19 maggio 1693, il 10 Marzo 1694, l’8 maggio e i 23 Settembre 1695 e, infine, il 20 aprile 1696».
«Le osservazioni riassunte, tratte dalle cronache dell’epoca (Anonymous, 1693; Boccone 1697; Bottone 1718; Mongitore 1743; Baratta 1901), hanno prodotto un quadro abbastanza chiaro delle due scosse del 9 e 11 gennaio 1693. Le caratteristiche dei due eventi indicano che entrambi i sismi ebbero epicentri distinti: i danni legati all’evento sismico del 9 gennaio furono significativamente meno gravi rispetto a quelli prodotti dalla scossa principale dell’11 gennaio. L’area mesosismica, ristretta lungo una fascia che si estende da Lentini a Noto, suggerisce che l’epicentro di questa prima scossa può essere localizzato sulla terraferma. Al contrario, la scossa principale dell’11 gennaio devastò completamente la parte sud-orientale della Sicilia, producendo drammatici effetti ambientali lungo la zona costiera e fu caratterizzata da una forte accelerazione verticale del suolo».
«Ciò implica che la scossa principale della sequenza del 1693, quella dell’11 gennaio, ragiunse, secondo il catalogo parametrico dei terremoti italiani (Cpti) una magnitudo (Mw) pari a 7.4, con epicentro al largo della costa ionica tra Catania e Siracusa, potenzialmente situato lungo i sistemi di faglie che caratterizzano questo settore dello Ionio (Scarpata di Malta o sistema Alfeo-Etna)».
Il periodo immediatamente successivo al terremoto
«Fin qui la fredda descrizione scientifica delle caratteristiche e degli effetti del terribile terremoto dell’11 gennaio 1693, ma le cronache non si fermano e raccontano dei due principali nemici che la popolazione scampata alla devastazione dovette affrontare nella quasi totale assenza di interventi da parte di qualsivoglia autorità per almeno un mese dopo l’evento. Parliamo della fame e del freddo. Due “tristi mietitori” che fecero centinaia di vittime tra i moltissimi feriti e sfollati. Ma non furono i soli “nemici” da affrontare. Un testimone del tempo racconta: “Il Regno è un cadavere! Le circostanze correnti son pessime; qui si temono tre pericoli grandissimi: il primo che è la peste per la puzza di tanti cadaveri, il secondo si è quello della fame, perché non c’è più chi coltivare li campi ed il bestiame rovina li seminati, il terzo è quello della guerra, essendo le porte principali del Regno aperte, senza speranza di poterle guardare e chiudere».
«La maggior parte delle riserve di grano andarono distrutte perché i magazzini dove veniva conservato si trovavano nei sotterranei dei castelli o dentro magazzini posti nei piani terra. Il crollo dei tetti e dei castelli stessi rese dunque impossibile il suo recupero per sfamare la gente. Il poco grano sfuggito ai crolli non poteva nemmeno essere macinato perché anche i mulini erano andati distrutti. E così, come racconta per esempio il Tortora, a Noto parte degli scampati al terremoto poté sopravvivere “pascendosi di frumento bollito e di vino che da sotto di quei diroccati sassi pure cavava, non potendosi pella distruzione dè molini macinare».
«Un caso singolare fu quello di Avola, dove, in quel tempo, era diffusa la coltivazione della canna da zucchero e così, mentre il Marchese di Avola faceva trasportare da Gela dai “bordonari” alcuni sacchi di frumento destinati ai più facoltosi, i più poveri si diedero al saccheggio dello zucchero, della legna e dei “stigli di ramo che il publico si prese per lo cocinari dentro, e frumento e fogliame e li cannameli (canne da zucchero) erano alli campi, li quali tutto questo pubblico se li disfa in parte in sucarseli per la fame e parte delli medesimi se han fatto e fanno li pagliari per habitarci dentro».
«Riguardo l’inclemenza meteorologica, un testimone racconta “per li rigidi freddi si provava un continuo morire, onde animatasi la gente plebeia incominciò a recider frondi e tronchi, et ivi fuoco, accendendo quella quantità di bragie e fiamme non solo ristoravano i circostanti, ma ci difendevano da quelli rigidi geli che ogni mattina a guisa di più condensata neve le terre coprivano».
«In breve, in tutto il territorio tra le province di Siracusa e Catania furono erette migliaia di capanne, anche perché la popolazione rifuggiva dalle grotte a causa del ripetersi di scosse di terremoto anche molto forti. L’importante era sopravvivere all’inverno, visto che quell’anno fu particolarmente piovoso e, come racconta Centorbi riferendosi ai rifugiati di Occhiolà “fuggivan tutti tra l’acqua che pioveva, molti a capo scoverto e per lo più privi e tutti d’ammanto, chi d’un piede scalzo, alcuni affato privi».
«In tutta questa confusione e, principalmente per la paura di malattie dovute alla grande quantità di vittime rimaste insepolte, Catania fu abbandonata a ladri e sciacalli. Stessa sorte toccò ad altri centri, tra i quali Noto».
La ricostruzione
«La risposta delle istituzioni, anche se tardiva rispetto ai canoni cui siamo abituati oggi, fu incisiva. Il Vicerè, Duca di Uzeda, il 15 gennaio nominò Giuseppe Lanza, Duca di Camastra, vicario generale per il Val Demone e, dopo la rinuncia del principe D’Aragona, anche per il Val di Noto. Gli enormi poteri a lui conferiti dal Vicerè permisero a Lanza di svolgere un’azione decisa e risolutiva finalizzata all’avviamento della fase di ricostruzione delle città della Sicilia Orientale distrutte dal terremoto. Fu persino deliberata la riapertura della Zecca di Palermo, in modo da facilitare l’approvvigionamento di danaro destinato alla ricostruzione, in cambio delle ricche provviste di argento delle comunità religiose e dei privati.
Addirittura, per arginare la grave crisi economica che perdurava da ben prima dell’evento sismico, fu permessa l’esportazione dei prodotti agricoli (frumento, orzo, vino, olio, canapa, frutta) e di altri collaterali (zucchero, seta, sale, prodotti per la pesca) nei paesi “infedeli” e “nemici della corona”. La prima fase della ricostruzione si occupò delle città di Siracusa, Augusta, Catania ed Acireale per ragioni legate alla ricostituzione del sistema difensivo della Sicilia Orientale. Successivamente, si spostò verso l’interno e in particolare si concentrò sulle città di Noto, Carlentini e Lentini.
E’ impossibile sintetizzare la complessità dello sforzo compiuto dal Lanza e dai suoi successori per la ricostruzione post-terremoto. Interi libri sono stati scritti sull’argomento e, a volte, interi libri su una sola delle città coinvolte. Naturalmente il processo durò parecchi anni, ma rappresentò una svolta determinante per la riconfigurazione dello spazio urbano, in risposta alla necessaria modernizzazione della società siciliana.
Essenzialmente si ebbero tre tipologie diverse di interventi: città ricostruite in siti diversi dagli originari (Noto, Avola, Occhiolà, Giarratana, Sortino, Biscari – oggi Acate, Monterosso, Fenicia Moncada – odierna Belpasso, e, in parte, Ragusa), città ricostruite ex novo sul vecchio sito (Catania e molte altre) e città ricostruite rispettando l’andamento viario originario (Siracusa, Caltagirone). Il tratto dominante, dal punto di vista architettonico, fu l’adozione dello stile barocco che, come scrive lo storico dell’arte Giulio Carlo Argan “è indubbiamente la testimonianza di uno sforzo moderno: il più grandioso e il più audace, forse, che l’Isola abbia mai prodotto. V’è, in quest’architettura, una evidente intenzione modernistica”.
In questo scenario hanno agito architetti “visionari” come Rosario Gagliardi e Giovan Battista Vaccarini. Grazie a loro e all’opera di innumerevoli “mastri” locali di eccezionale abilità, oggi il Barocco siciliano rappresenta un “unicum” di bellezza ed efficacia, anche antisismica, grazie alle innovative tecniche costruttive e all’armonia delle forme concepite per palazzi, chiese e monasteri, che hanno anche fruttato l’inserimento nella World Heritage List dell’Unesco.
Ad osservarla oggi, nel 324/mo anniversario di quel triste evento, la Val di Noto è completamente diversa da quell’insieme di paesini arroccati su colline e montagne che era prima del terremoto. La sua storia è stata sconvolta e l’imponente ricostruzione l’ha restituita molto più ricca e molto più moderna di altre aree della Sicilia.
Non è, dunque, sbagliato affermare (fatto salvo l’ovvio rispetto per le vittime di quell’evento) che i protagonisti di quella ricostruzione riuscirono – dopo la tragedia – nell’impresa di trasformare una sciagura in una occasione».