PALERMO
Quattro martellate, una coltellata, la benzina e le fiamme… quando un collega di lavoro diventa il tuo carnefice. Una storia da brivido raccontata dalla vittima: Barbara Bartolotti.
Nel cuore della notte si sveglia e le tornano in mente quelle terribili immagini. Lei a terra, in via Cristoforo Colombo a Palermo, e il suo carnefice in macchina che la guarda e attende che lentamente muoia avvolta dalle fiamme. Appena crede che sia riuscito a ucciderla, mette in moto e va via.
Ma quel corpo, lì, steso e apparentemente esanime aveva dentro una voglia di vivere che lo ha portato a resistere. E si perché Barbara Bartolotti, mamma di tre figli bellissimi, oggi ci racconta la sua storia.
«La cosa che mi fa più rabbia è che Giuseppe, il mio carnefice, doveva scontare 25 anni di carcere per tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà e invece gliene hanno dati solo 4 ai domiciliari grazie agli sconti di pena. Per la legge, infatti, è risultato reo confesso, col suo legale ha scelto il rito abbreviato ed era incensurato. Di questi quattro grazie all’indulto non ne ha scontato neanche uno, è risultato libero sin da subito con permesso di uscita. Morale della favola oggi lavora in banca, è sposato ed è anche diventato padre. Io ho il corpo sfregiato, ho vissuto un calvario psicologico e proprio a causa del mio aspetto non riesco a trovare un lavoro. Mi sento rispondere spesso “gioia ma nelle tue condizioni dove ti mettiamo, fai impressione”. Ma credetemi – aggiunge – pur di avere una vita normale accetterei qualsiasi incarico».
Fino al 2003, Barbara aveva una vita felice. Sposata e con due figli, lavorava come contabile in un’azienda edile e tutto sembrava trascorrere sereno fino a quel giorno in cui il suo collega e geometra della stessa società le ha chiesto di vedersi. «A me non è sembrata strana quella sua proposta – continua – perché per il lavoro che facevamo, spesso eravamo fianco a fianco ma io non ho mai capito il suo interesse ossessivo nei miei confronti. Quel giorno mi chiamò dicendomi testuali parole: “Barbara devo scendere da Marineo e vorrei parlarti”. Io mi resi disponibile e lo incontrai ma mentre eravamo nella sua macchina ho iniziato ad agitarmi perché notavo che stava lasciando il centro cittadino e non capivo. In via Cristoforo Colombo gli chiesi di accostare un attimo perché dovevo chiamare mio marito per avvertilo che ritardavo. Il tempo che sono scesa dalla macchina e ho digitato il numero, ho sentito un tonfo e un forte bruciore alla testa. Lui mi aveva colpito con un martello».
Una testimonianza di violenza che fa venire i brividi. I suoi occhi sono glaciali mentre ricostruisce ciò che le è accaduto ma nasconde un dolore misto ad una grande forza. Una martellata, una seconda e giù di fila fino alla quarta. Barbara che si accascia mentre gli urla «Bastardo» e lui che con continua con la sua furia omicida rispondendole «Non ti posso avere, meglio ucciderti»; poi una coltellata al ventre che le uccide il bambino che aveva in grembo e il liquido infiammabile spalmato sul suo corpo. In un secondo le fiamme cominciano ad avvolgerla.
È la moviola di quei terribili istanti. Giuseppe sale in macchina e dallo specchietto la osserva, sta attendendo che muoia. Barbara che si aggrappa alla vita, capisce e si finge morta. Appena lui mette in moto e va via, si alza, si tampona le fiamme e chiede aiuto a due ragazzi che accostano e la portano in ospedale, al pronto soccorso di Carini. «Giusto il tempo di pronunciare il nome di chi mi stava uccidendo e sono svenuta, entrando in coma per dieci giorni all’ospedale Civico di Palermo. Ripensando a quel periodo, può sembrare assurdo, ma ho delle sensazioni bellissime. Tanti bambini vestiti di bianco intorno a me giocavano con delle corde. Dentro avevo una grande voglia di vivere, pensavo ai miei figli, e mi sono risvegliata. Gli ematomi nel frattempo si erano assorbiti ma ho dovuto sottopormi a diversi interventi chirurgici per via delle ustioni. È stato un calvario ma quattro anni dopo con mio marito abbiamo avuto una bambina speciale, Federica. Lei per me rappresenta la rinascita».
Barbara, dopo sei mesi di malattia, è stata licenziata anche perché l’azienda edile in cui lavorava era dello zio di Giuseppe. Questa donna è una forza della natura, non ha mai rinunciato alla sua dignità, non ha lavoro ma non si perde d’animo e si dedica al prossimo aiutando le donne vittime di violenza.